Il “lato oscuro” del fenomeno Millennials

Mi è stato segnalato qualche giorno fa un interessante video di Simon Sinek, autore visionario e formatore anglo-americano, che parla delle problematiche connesse ai millennials, ovvero la generazione nata a cavallo tra XX e XXI secolo, che ora si trova alle porte del mondo del lavoro.

Il fenomeno è molto dibattuto in ambito sociale e aziendale, in cui si afferma che la loro generazione è diversa dalla precedente: più idealista, più veloce e adattabile, più orientata alla tecnologia e ai social. Sembra un completo miglioramento, un passo evolutivo rivoluzionario, eppure, come tutti i cambiamenti radicali, ha i suoi lati oscuri.

Sinek afferma che questa generazione vive contrasti interiori profondi, spesso mascherati da una sicurezza e una positività fasulla – social ma non sociale – che crolla come un gigante con i piedi di argilla nel momento in cui ci si scontra veramente con le reali difficoltà che si incontrano nella vita relazionale e lavorativa adulta.

I punti di criticità da lui evidenziati sono 4:

  • I genitori e in generale il sistema educativo moderno
  • L’effetto dipendenza creato dalla socialità digitale
  • Il bisogno di continue gratificazioni istantanee
  • L’ambiente che non fornisce i giusti impulsi

Il primo punto è il fallimentare modello di educazione familiare che si è sviluppato nel mondo occidentale. Si è giunti ad un punto dove buona parte dei genitori – e gli insegnanti dietro di loro – hanno accettato un modus vivendi politicallycorrect in cui si devono livellare i più bravi con i meno bravi – spesso sono solo ragazzi che non si vogliono impegnare – per non discriminarli.

Questo fenomeno crea generazioni che non sono educate alla ricerca del miglioramento verso l’eccellenza. Perché mai dovrei impegnarmi per prendere 9 o 10 se poi vengo “calcolato meno” rispetto a quelli che si meritano un 2 o un 3 ma che alla fine ottengono un 6 politico pur di non intasare di bocciati le classi precedenti?

Un atteggiamento simile, di protezione a tutti i costi di chi non ha voglia di impegnarsi e faticare a scuola, ingenera nei ragazzi un falso senso di sicurezza che si infrangerà miseramente all’università – dove infatti vengono bloccati dai test in quelle a numero chiuso, oppure rimangono parcheggiati per anni in quelle aperte – e, peggio, ancora, nel mondo del lavoro.

A questo punto sono lacrime e sangue, con curriculum inviati a centinaia senza sapere neanche come presentarsi al meglio – nessuno glie lo ha mai insegnato – e con pochi o nessun elemento di differenziazione positiva rispetto alle masse dei propri coetanei.

La protezione a tutti i costi dei propri figli, il metterli sotto una campana di vetro, è una facile soluzione temporanea per i genitori – che si sentono la coscienza a posto, in quanto si sentono loro “amici” e “complici” – ma sul lungo periodo non li prepara a sviluppare quella forza interiore e capacità necessaria ad affrontare da soli le sfide dell’esistenza.

La socialità digitale non aiuta. Recenti studi hanno verificato che il ricevere notifiche e in genere interazioni WhatsApp, Facebook o Instagram aumenta i nostri livelli di dopamina. In pratica stimola i centri del piacere del cervello come quando si beve alcol, si fuma, si scommette, si mangia cibo spazzatura.

Tutte queste attività provocano, alla lunga e se si eccede, una dipendenza. Ecco, ora immaginate una vostra giornata ideale. Quante volte guardate il cellulare per verificare le notifiche? Quante volte vi trovate in momenti morti a fare un check al vostro smartphone? Peggio ancora, quante volte trascurate le persone che avete intorno – a casa, in ufficio, ad un pranzo con gli amici – per chattare con qualcuno a chilometri e chilometri di distanza, che sta probabilmente ignorando a sua volta le persone che stanno fisicamente vicine a lui?

A questa dinamica si aggiunge il bisogno di mostrarsi sempre positivi, cool o comunque nel modo migliore – Instagram mette i filtri apposta! – rispetto alla realtà concreta, effettiva della nostra vita. Questo crea un effetto di disillusione e di disamoramento verso il mondo reale, che sempre più viene rifuggito perché si è sempre meno allenati a farlo, come abbiamo visto prima.

Si arriva poi all’impazienza, ovvero al fatto che siamo bombardati di stimoli che ci invitano a soddisfare tutto e subito. Vuoi comprare qualcosa? Vai su Amazon. Vuoi vedere un film? Vai su Netflix o in un qualsiasi sito di streaming. Vuoi sentire una canzone? Vai su Youtube o Spotify.

Questo non vuol dire essere contrari a questi strumenti, sono il primo ad utilizzarli. Il punto è che non si è più allenati alla ricerca, all’attesa, al lavorare e impegnarsi per ottenere un risultato nel lungo periodo.

Un esempio pratico è il risparmio, di cui abbiamo parlato in un altro articolo (LINK), dove per mettere da parte dei soldi non bisogna guardare alla settimana o al mese, ma bisogna organizzare un piano di ampio respiro ad un anno o più, a seconda dell’obiettivo che si vuole poi raggiungere con il denaro accumulato. Invece la società di consumo ci stimola ad andare a debito pur di avere “tutto e subito”, togliendoci ogni sfizio immediatamente, anche se al di sopra delle nostre capacità economiche attuali.

La gratificazione differita è stato tema di un interessante articolo basato sui concetti di resilienza trattati dai libri di Marco Trabucchi.

Infine l’ambiente. Abbiamo visto che la scuola non riesce più ad affiancare un sistema virtuoso di sana educazione, allineandosi con il modello sbagliato ultra-protettivo che sempre più genitori stanno adottando. Allo stesso modo anche le aziende si focalizzano sempre di più non sul formare e il far crescere le proprie risorse umane, ma guardano ogni cosa in termini di costi, volumi di produzione, budget, obiettivi.

Ora, questi elementi sono necessari alla vita di un’azienda, ma non ci si deve scordare che questa non è un’entità vitale a sé stante, ma piuttosto un mezzo per generare quel livello di benessere e ricchezza tale da garantire il futuro al titolare, alla sua famiglia e a tutte le persone – e rispettive famiglie – che vi lavorano.

Per questo motivo, oggi, le imprese hanno un obbligo morale – secondo Sinek, ma anche secondo me – di curare la qualità della vita, delle relazioni sociali, dello sviluppo delle competenze professionali e delle soft skills dei propri collaboratori.

Durante la settimana si passa più tempo nell’ambiente di lavoro che a casa propria. Sarebbe assurdo sperare che il proprio personale sia produttivo, efficiente e motivato se l’ambiente di lavoro non fornisce i giusti impulsi. Questo è un onere del titolare, che si deve impegnare a creare il clima giusto.

Dall’altro lato, anche i collaboratori devono sentire che l’azienda è in parte la loro, che il loro singolo contributo, in chiave corale, genererà quella forza attrattiva positiva nel mercato che garantirà il successo della stessa e, di riflesso, un loro sereno futuro lavorativo.

La grande sfida del nostro tempo si basa quindi nel rifondare le basi culturali-educative dei giovani – riscoprendo i sani valori dell’impegno, della pazienza, della sopportazione dei disagi presenti per gratificazioni future, nel trovare l’equilibrio tra vita reale e tecnologia e nel recupero di quelle abilità sociali interpersonali che, migliaia di anni fa, ci hanno permesso di evolverci e fondare la civiltà.

Al link trovate il video di Sinek, tradotto in italiano: https://www.youtube.com/watch?v=hJi1uW1EGFc

Pinuccio Massaiu